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Julia Kristeva Sole Nero

SINOSSI


Due tesi ardite sostengono questo libro di Julia Kristeva – semiologa, scrittrice, grande intellettuale e interprete del disagio dei nostri tempi: la prima è che la «melanconia» degli antichi, la atra bilis studiata da Aristotele, da Ippocrate e da Galeno, indagata nel Rinascimento da Marsilio Ficino e immortalata da Dürer, pur restando sostanzialmente la stessa, abbia assunto ai giorni nostri il volto di una malattia riconoscibile: la depressione. La seconda è che quest'ultima, proprio perché sperimenta l'inconsistenza del senso delle cose, sia capace di una trasformazione rivoluzionaria: di cambiare il pensiero e le forme artistiche. Un viaggio affascinante, quello di Julia Kristeva, attraverso la psicoanalisi, la filosofia, l'estetica letteraria, la storia, l'arte. Dopo avere affrontato tre figure della depressione femminile – casi clinici narrati come tre cronache – Kristeva si confronta con le storie di quattro grandi artisti, nei quali la malinconia ha prodotto opere di alto valore simbolico, in epoche e contesti differenti: Hans Holbein, Gérard de Nerval, Fëdor Dostoevskij e Marguerite Duras. Spaziando dall'idea del sublime a quella di morte, dalla nostalgia al dolore della mente, Sole nero costituisce un'indagine sulla sofferenza contemporanea e sui suoi effetti sulla società. Una riflessione sul dolore, certo, ma anche sul senso di una nuova forma del sacro, perché, come afferma Kristeva, «oggi non è tanto il sesso che incomoda o che fa paura, quanto il dolore permanente, il cadavere potenziale che noi siamo. Chi osa guardarli negli occhi? La depressione è il segreto, forse il sacro della nostra epoca».

 

 

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Julia Kristeva, été 2013, photo Sophie Zhang

 

 

SOLE NERO

Sms ai lettori italiani

Introduzione

(2013)

 

 

 

 

Ventisei anni dopo la prima edizione francese di Soleil noir. Dépression et mélancolie (Gallimard, Paris 1987), il mio amico e editore Carmine Donzelli mi chiede se ho qualcosa da aggiungere. Io lo ringrazio, e senza deprimermi mi interrogo.

 

Per la verità, non avevo mai chiuso questo libro. I miei pazienti di oggi hanno una bella voglia di essere iperconnessi dai vari smartphone e skype: il web non impedisce il suicidio; può capitare al contrario che lo incoraggi. La logica della loro depressione segue le stesse figure alle prese con un «passato che non passa», con una «lingua morta», o con una «Cosa sepolta viva». I disturbi bipolari sono più che mai alla moda, e la bellezza resta immancabilmente l'altra faccia del depresso. Il matrimonio per tutti e le famiglie ricomposte stanno diventando la norma, ma l'amore incorpora sempre il dolore, e la psicoanalisi rimane il solo spazio che la modernità riserva alla sofferenza per ottenere quella forma lucida del perdono che è l'interpretazione. Le conferenze che ho tenuto in Europa, in America o in Asia, le traduzioni in numerose lingue, mi persuadono dell'attualità persistente di questo «sole nero», e io continuo ad affinare la spiegazione che ne propongo a coloro che ne sono scottati. Cosa posso aggiungere ancora, e per di più all'indirizzo del lettore italiano, della lettrice italiana?

 

Non è dunque senza «paura e tremore» che affido oggi al mare questa bottiglia.

 

Essendo cambiato, rispetto a un quarto di secolo fa, il ritmo della comunicazione, provo ad arrischiare, in questa introduzione, una con-trazione, una sorta di sms al tempo stesso denso e serrato, che la lettura del libro permetterà - spero - di distendere e sviluppare.

 

Sì, la depressione e la malinconia sono più che mai le compagne della globalizzazione. Il Prozac, l'Anafranil o il Seroxat hanno invaso l’armadietto dei medicinali di ogni famiglia, e gli antidepressivi sono in grado di regolare efficacemente il flusso nervoso. Tuttavia, con o senza di essi, la vita e la morte della parola si giocano nella caverna senso-riale dei traumi infantili, ed è il transfert sul terapeuta dell'odio indici-bile e dell'eccitazione innominabile che fa rinascere il suicida o la suicida: dentro nuovi legami, per realtà da reinventare.

 

Sì, la sindrome depressiva non è più soltanto un malessere personale. Le nazioni stesse oggi sono depresse, sotto lo choc della crisi en-demica e dell'inevitabile austerità. L'Europa stessa è minacciata in prima persona da un malinconico pensionamento, con relativa perdita di identità, di valori e di fierezza. Avevo scritto Contre la dépression nationale (Textuel, Paris 1998), analizzando la Francia tentata - già allora - dal Fronte nazionale e gettata nel panico dall'ondata degli immigrati. Nation Without Nationalism, suona così la traduzione inglese di un mio lavoro precedente (Columbia University Press, New York 1993). Siamo ancora, e più che mai, a quello stesso punto: perché l'identità è il nostro anti-depressivo sociopolitico, ma perché non si traduca in una fonte di regressioni identitarie, di fronte allo stallo economico-politico dell'Europa che ci lascia impotenti, non abbiamo che una sola arma: la cultura. Riguardiamo il Cristo morto di Holbein, rileggiamo El Desdichado di Gerard de Nerval, il carnevale dei Demoni in Dostoevskij, la Malattia della morte secondo Duras... E parliamone: esiste una cultura europea. Cos'è? Ieri, oggi, domani?

 

No, io non sono né depressa né depressiva. Certi lettori me lo chiedono, e approfitto dell'occasione per rispondere. Ho visto la tempesta passarmi vicinissima, e l'ho vista sconfitta dalla persistenza del pensiero, che mia madre (cui ho reso omaggio nel mio La testa senza il corpo, Donzelli, Roma 2010) considerava come il mezzo migliore per spostarsi: da un luogo, da sé, da tutto... Più tardi ho voluto fare compagnia alla sofferenza dei malati all'Hôpital de la Salpetrière a Parigi, ma anche immergermi nelle «idee», di cui Marcel Proust scrive che sono «i succedanei dei dolori». Non sono lontana dal pensare, con Aristotele e Heidegger, che la malinconia è coestensiva all'inquietudine dell'uomo nell'Essere.

 

E poi ho esplorato il genio femminile. E ho aggiunto l'erotismo della reliance materna (cfr. il mio Pulsions du temps, Fayard, Paris 2013); e oggi penso, con Colette, che «rinascere non è mai superiore alle nostre forze». Può darsi che sia più facile a dirsi che a farsi, se siete una donna che ha analizzato le sue ferite e i suoi limiti, i suoi bisogni di credere e i suoi desideri di sapere. E preferisco di gran lunga l’éclosion della natura, degli altri e di sé, piuttosto che compiangersi nel mal-être - alla faccia della «tribù malinconica dei filosofi», di cui rideva Hannah Arendt.

 

«La malinconia non è francese», mi avevano detto all'epoca dei critici che pensavano a Rabelais, a Sade, alla Rivoluzione, e nascondevano le loro lacrime, degne al massimo di brume tedesche o nordiche. E italiana, la malinconia? Sì o no? Amo il blu di Giotto, la Santa Teresa di Bernini, le estasi del Tiepolo, la voce di Cecilia Bartoli... Il mondo intero viene da voi a fare il turista per dimenticare la propria miseria e per divertirsi; e la barocca Venezia non fu essa stessa eretta come culto della malinconia? L'Italia dunque come negazione delle realtà dolorose? O piuttosto come scrigno globalizzato della depressione nazionale, in mancanza di alternativa, in assenza di avvenire? Oppure - chissà - in anticipo sul désêtre mondiale, e pronta ad analizzare, a rivoltarsi, a rinascere?

 

Mi piacerebbe che quelli che leggeranno questo libro potessero ritrovarvisi. Non propongo soluzioni. Per la prima volta nella storia, dopo tante guerre, tanti crimini, tante speranze più o meno rivoluzionarie o paradisiache, stiamo capendo che i problemi essenziali non sono «solubili». Ma che ciascuno, ciascuna, può aprire la cicatrice o la piaga delle sue pene, per metterle in questione e cominciare a spiegar-le. Il mio augurio è che voi possiate farlo, leggendo queste traversate di «soli neri» che io ho cercato di accompagnare nelle pagine che seguono. E che possiate chiudere questo libro, avendo conquistato qualche lampo, per innescare delle nuove possibilità da dischiudere.

 

Julia Kristeva

 

Parigi, 30 giugno 2013

 

 

 

 

 

 

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